
Durante il suo discorso di insediamento, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha elencato per nome una serie di donne celebri in grado di sfondare il celeberrimo “tetto di cristallo” nei rispettivi ambiti. Fra di loro, vi erano anche le prime donne a diventare rispettivamente Ministro (Tina Anselmi) e Presidente della Camera (Nilde Iotti), entrambe con percorsi politici molto diversi da quelli dell’attuale premier, tanto da aver partecipato attivamente alla Resistenza.
Un motivo esatto per cui la prima Premier donna in Italia sia espressa dal partito che siede più a destra nell’emiciclo, non c’è. Ne possiamo ipotizzare parecchi e non possiamo che farlo partendo dalla Scandinavia.
Una premessa: di nomi ne abbiamo appuntati tre, perchè Mette Frederiksen e Sanna Marin sono le Prime Ministre Socialdemocratiche in carica in Danimarca e Svezia e Magdalena Andersson la è stata fino a poche settimane fa in Svezia, ma faremmo un enorme torto a Gro Harlem Brundtland, oggi 83nne, che nel 1981 e poi a più riprese fra gli anni ’80 e ’90, svolse tale ruolo in Norvegia per il partito Laburista. Nel 1994 ha ricevuto il Premio Carlo Magno per l’impegno a portare il suo paese nella UE (poi respinto da un referendum) e nel 2003, come direttore generale dell’OMS, fu indicata come modello nelle politiche per la lotta alla pandemia della SARS. Non ce ne voglia anche la premier verde islandese Jakobsdottir, ma le dinamiche politiche dell’isola sono più simili a quelle di un medio capoluogo di provincia che non a quelle di uno stato sovrano e non è possibile leggerle nell’ottica del resto della Scandinavia.
Le tre leader socialiste scandinave arrivano da storie abbastanza diverse. Mette Frederiksen, che pochi giorni fa ha rivinto le elezoni in Danimarca, prima di entrare in parlamento a 34 anni, era una funzionaria sindacale e, oggi, il suo passato lo si riconosce dal modo in cui ha rigettato la “terza via” blairiana mettendo addirittura in discussione le politiche migratorie del proprio paese per non incidere sui salari e non far ricadere il problema della sicurezza sulle fasce più deboli.
Poi c’è Magdalena Andersson che è un’economista ed è stata responsabile delle politiche finanziarie dei Socialdemocratici in Svezia prima di salire al ministero e poi a Rosenbad nel 2021, lei, invece, appartiene alla corrente moderata e riformista del suo partito. E’ vero, ha perso le elezioni di settembre, ma le sue responsabilità nella sconfitta sono limitate, anzi: i Socialdemocratici arrivavano da sette anni di governo con Stefan Lofven ed erano destinati a sconfitta sicura, lei in un anno ha avviato i negoziati per l’accesso alla Nato dopo l’invasione dell’Ucraina e rimesso in moto il paese dopo la pandemia, tanto da portare il suo partito a un insperato +2% rispetto a quattro anni prima. Solo i cattivi risultati di Sinistra e Centro (anch’essi guidati da due donne, Nooshi Dadgostar e Annie Lööf) hanno impedito alla coalizione di centro-sinistra di proseguire il lavoro.
Infine c’è Sanna Marin, di cui avevamo già parlato in merito allo scandalo del video in cui cantava una canzone ispirata al consumo di cocaina in una festa privata: proprio pochi giorni fa, il dipartimento di giustizia guidato da Tuomas Pöysti ha ravvisato che la giovane premier non ha infranto nessuna regola riguardo al protocollo e alla sicurezza nazionale. Lei è entrata per la prima volta nel Consiglio Comunale di Tampere a 27 anni, si è fatta le ossa nella politica locale (il famoso cursus honorum) e la sua scalata, in meno di dieci anni, è stata sorprendente. Su Reddit, un osservatore ha commentato che si tratta della “Miglior cosa che potesse capitare ai Socialdemocratici, altrimenti destinati a scomparire perchè sostenuti ormai solo dai pensionati”.
Proprio da lei possiamo partire: a dispetto di idee politiche radicalmente diverse fra di loro (Sanna Marin è la “delfina” di Antti Rinne, molto vicino ai sindacati), la narrazione della sua esperienza politica è quella di un underdog, proprio come Giorgia Meloni. Sanna Marin nasce in una famiglia povera, estranea alle vicende politiche, con il padre alcolizzato che viene allontanato dalla moglie. Il padre, Lauri Marin, è morto nel 2020 e la Premier non ha partecipato ai funerali perchè non lo ha mai considerato come tale. La madre, infatti, si è risposata con una donna e Sanna Marin ha sempre vantato di essere cresciuta in una famiglia arcobaleno con due mamme.
Magdalena Andersson è stata, in ordine cronologico l’ultima arrivata fra le tre, dato che la Svezia, prima di lei, non era mai stata in grado di esprimere una Premier donna. Non che non ci fosse andata vicina, ma le due esperienze precedenti erano state fallimentari. La prima era quella di Mona Sahlin, anch’ella socialdemocratica, che nel 2010 diventò la prima leader del suo partito dopo oltre 100 anni a non occupare la poltrona di Primo Ministro, perdendo le elezioni contro il centro-destra. La sua colpa fu l’uso disinvolto dei fondi di partito una decina di anni prima e una serie di uscite in difesa del multiculturalismo ritenute eccessive e imbarazzanti anche da molti simpatizzanti di sinistra. La seconda fu Anna Kinberg Batra, questa volta a capo dei Moderati (appartenente al PPE, l’equivalente svedese di Forza Italia): lei venne eletta per sostituire l’ex premier Fredrik Reinfeldt, che aveva battuto Sahlin e poi perso con Lofven, ma non arrivò mai alle elezioni del 2018 perchè divorata dai conflitti interni al partito. E’ stata sostituita da Ulf Kristersson che oggi è capo del governo.
Forse, per avere una donna premier con qualche anno di anticipo, in Italia si sarebbero dovute esporre più donne in passato, ma nessuna lo ha fatto. Vuoi perchè il centro-destra fino a poco tempo fa, era egemonizzato dalla figura di Silvio Berlusconi, vuoi perchè a sinistra il gioco delle correnti tende a consumare eccessivamente le figure più importanti. Nessuna si è fatta avanti (e le poche che si sono espresse, non erano evidentemente all’altezza) e nessuna è stata proposta. Giorgia Meloni, per diventare leader di un partito, ne ha dovuto fondare uno tutto suo e impostarne la narrazione sin dall’inizio, mettendo in cantiere anche alcune sbandate e risultati decisamente inferiori alle attese.
Infine c’è Mette Frederiksen: come abbiamo visto in questi giorni, ha sfidato la destra sul suo territorio e il risultato è stata una rielezione a dispetto di una crisi di governo. Anzi, il partito che l’ha scatenata, i Radicali, è stato dimezzato in parlamento, mentre lo scandalo dell’inutile sterminio dei visoni in ottica anti-Covid le è scivolato letteralmente addosso. Così come un altro scandalo, quello della separazione dei minori rifugiati dalle famiglie (costatole 60 giorni di carcere), è scivolato sopra alla leader dell’estrema destra, Inger Støjberg, che si è fondata un suo partito (i Democratici di Danimarca) ed è rientrata in parlamento. Mette Frederiksen ha messo in discussione la politica migratoria e quella ambientale, togliendo armi al centro-destra. In Italia, le due donne di centro-sinistra più esposte recentemente, hanno scelto strade opposte. Laura Boldrini è identificata spesso come la protettrice dei rifugiati, mentre Debora Serracchiani, dopo botta e risposta con la Premier in cui l’aveva accusata di volere le donne “un passo indietro agli uomini”, è stata visibilmente respinta con perdite.
Un aspetto abbastanza comune fra le tre leader è che, vuoi per l’emancipazione avanzata delle donne nei paesi Nordici, vuoi perchè il tetto di cristallo è in frantumi da un bel po’, mai hanno utilizzato la retorica del “Votatemi perchè sono una donna”. Così come i diritti civili, che in Scandinavia sono un aspetto consolidato della vita sociale, non appartengono più al dibattito, tanto che perfino la destra più radicale ha notevolmente abbassato i toni su aborto e diritti LGBT. Forse, più che discuterne con toni che spesso rasentano lo stucchevole, è servito agire quando se ne aveva la possibilità, e in questo senso viene in mente la polemica sul DDL Zan che è stato portato avanti di fronte ad un parlamento frammentato e per lo più orientato a destra, quando, invece, fino al 2018 esisteva una maggioranza di centro-sinistra (più i 5 Stelle) pronta a sostenerlo e di cui Zan stesso faceva parte.
Possiamo riassumere così la mancanza di leadership femminile nel centro-sinistra: un correntismo che impone al vertice una figura di mediazione anzichè di rottura; una narrazione che sicuramente non premia una classe politica femminile protetta dagli alti papaveri maschili (sempre per il discorso delle correnti) a dispetto di voci più genuine e vicine al sentire comune; la mancanza di responsabilità nel fare fronte a una sconfitta senza ricorrere alle accuse di maschilismo e l’incapacità di affrontare razionalmente i temi della destra.
Ci sono cinque anni per riflettere, ma il Partito Democratico non è ancora riuscito a fare i conti con la sconfitta del 2018, è evidente che per quella del 2022 dovrà passare altro tempo. Oppure qualcuna si dovrà caricare sulle spalle la responsabilità di far nascere l’equivalente a sinistra di Fratelli d’Italia.