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La Lady di Ferro di sinistra


Ci sono pochi segnali in grado di indicare un nome diverso rispetto a quello di Mette Frederiksen per il governo danese che arriverà dopo le elezioni del 1° novembre; troppo divisi i partiti di centrodestra, troppo avanti nei sondaggi quelli di sinistra perchè accada diversamente. Dovrebbe avvenire qualcosa di inatteso nelle urne, o una, ad oggi impensabile, unione di intenti fra i politici oggi all’opposizione.


Il secondo mandato di Mette Frederiksen, se sarà confermato dal voto in Danimarca di martedì, si aprirà con la questione programmatica: i numeri ed il passato suggeriscono di consolidare i rapporti fra i Socialdemocratici e la Sinistra e i Verdi, ma non è un mistero che Frederiksen abbia cercato di sfidare la destra su immigrazione e cambiamento climatico adottando politiche estranee ai progressisti nel resto d’Europa. La Danimarca, ad oggi, è uno dei paesi con la politica migratoria più restrittiva all’interno dell’UE e che adotta un relativo laissez-faire nella gestione delle risorse più inquinanti (l’agenda del 2019 che prevedeva una riduzione del 70% di CO2 entro il 2030 pare essere abbastanza indietro).


Mette Frederiksen ha esordito come sindacalista dopo la laurea in Scienze Sociali e Studi dell’Africa e si è mostrata sempre piuttosto critica dell’approccio centrista e global di altri predecessori del centrosinistra Europeo. La sua opposizione all’immigrazione di massa l’ha più volte contrapposta ai colleghi socialdemocratici di Svezia e Norvegia, generalmente più accoglienti, partendo dal presupposto che una non-gestione del fenomeno migratorio potesse avere ripercussioni economiche (dumping salariale) o di natura culturale.


Questa visione, unita all’intenzione di affrontare i cambiamenti climatici in relazione al costo delle materie prime e delle tecnologie necessarie per produrre energia pulita, l’ha resa una specie di unicum nel panorama politico Europeo. La ricetta funziona: nel 2015 Frederiksen ha rimpiazzato Helle Thorning-Schmidt alla guida dei Socialdemocratici dopo che quest’ultima, pur con un discreto risultato elettorale, aveva perso la maggioranza in favore del centrodestra. Dopo Thorning-Schmidt, è venuto il turno di Lars Løkke Rasmussen, costretto a scendere dalla poltrona di Primo Ministro nel 2019.


A livello Europeo, Mette Frederiksen appartiene al blocco dei paesi frugali assieme a Paesi Bassi, Finlandia e Svezia, tradizionalmente ostili a interventi corposi dell’UE nei confronti degli stati più esposti al debito, come ad esempio l’Italia. Dopo l’invasione russa in Ucraina, Frederiksen ha sostenuto il referendum che ha cancellato l’esclusione volontaria della Danimarca da un sistema di difesa comune Europea.


I rivali, di fronte a lei, non sembrano nutrire troppe speranze: Løkke Rasmussen è uscito dalla Venstre e, più che a sconfiggerla, prova a diventare l’ago della bilancia con i Moderati (ci aveva già provato da Premier uscente nel 2015), mentre Pape-Poulsen e Elleman-Jensen sono stati a lungo impegnati in una lotta per la leadership che ha finito per penalizzarli entrambi.

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