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Davide Mattiello, la strage di Utøya e dove andrà l'Europa


Foto: Davidemattiello.it

Oggi ricorre il dodicesimo anniversario delle stragi di Oslo e Utøya, quando l’estremista di destra Anders Behring Breivik uccise 77 persone, di cui 8 in un’esplosione presso gli edifici governativi e 69 sparando su un gruppo di giovani iscritti al Partito Laburista che partecipavano ad un seminario sull’isola di Utøya.


Della vicenda si è occupato molto Davide Mattiello, torinese, ex parlamentare del Partito Democratico e già membro dell’ufficio di presidenza di Libera, l’associazione fondata da Don Luigi Ciotti per combattere la criminalità organizzata. Mattiello parla della strage di Utøya nel libro “La Repubblica d’Europa” scritto assieme ad altri sette autori, pubblicato nel 2019, e lo menziona spesso nei numerosi incontri pubblici che tiene periodicamente.


Spesso, parlando di lotta alla criminalità organizzata e di antifascismo, fai riferimento alla strage di Utoya. A distanza di 12 anni, specie nei più giovani, quanto è conosciuto questo avvenimento?

Purtroppo poco, credo, ma meriterebbe di essere conosciuto di più. Ammesso che esista una traccia di memoria delle stragi di natura terroristica degli ultimi anni, questa traccia spesso coincide con gli attentati di matrice islamista, mentre la matrice della strage di Utoya è completamente diversa anche se ha un intimo e tragico collegamento con la questione della convivenza fra religioni e culture. E quest’altra viene per lo più ignorata. Soprattutto con la piega che ha preso l’Europa negli ultimi anni, andrebbe conosciuta, dibattuta e interiorizzata perché la consapevolezza diventi una sorta di antidoto, un presidio culturale rispetto a certe derive. Derive rispetto alle quali l’autore della strage fu profetico in maniera davvero impressionante, perché se noi pensiamo agli anni in cui maturò la volontà di Breivik di commettere quella strage e il periodo in cui scrisse il manifesto che inviò a circa 1000 indirizzi mail in tutta Europa, le destre xenofobe razziste o suprematiste non erano forti come lo sono oggi. Era difficile immaginare che sarebbe diventata un'opzione politica vincente, dato che arriviamo da un periodo critico, con alti e bassi, ma in cui le forze liberali o socialdemocratiche sembravano saldamente al governo delle democrazie occidentali. La scena è cambiata, i germi che oggi portano ad una scena europea nella quale le forze di estrema destra al successo, circolavano per l’Europa già 12-15 anni fa e Breivik, e i tanti Breivik che non hanno commesso atti come il suo, erano portatori di questi germi che sono maturati.


Nel Nord Europa, pur attraverso processi democratici e spesso dovendo poi rimangiarsi buona parte delle promesse fatte, i movimenti xenofobi hanno ottenuto consensi anche dopo la strage. E’ il segnale che questi movimenti abbiano interpretato meglio una sorta di disagio da parte di alcune fasce della popolazione, o si tende a separare il gesto, quello in particolare, del singolo, da una proposta più ampia?

Non so rispondere in maniera informata in relazione ai paesi del Nord Europa, generalmente credo che il terrorismo di matrice suprematista sia molto segregato nella coscienza pubblica e nell’opinione pubblica, come se fatti di questa natura fossero rubricati nell’opinione pubblica come fatti commessi da pazzi squilibrati. Apro una parentesi: dopo i fatti di Utoya, ho avuto modo di conoscere e collaborare con un giornalista italiano, Luca Mariani, autore dell’unico libro uscito in Italia dedicato alla strage di Utoya “Il silenzio sugli innocenti” e lui, da giornalista politico, adoperò quel suo libro per mettere in evidenza, soprattutto, la mistificazione massmediatica che si diede in Italia dei fatti di Utoya. In quel libro venne messo in evidenza il fatto che chi parlò della strage in Tv, giornali editorialisti, per lo più, con qualche rara eccezione, fecero riferimento a Breivik come un pazzo che si era messo a sparare in un campeggio, neutralizzando il valore ideologico e politico. Noi sappiamo cosa significava sparare in quel campeggio, ma la narrazione prevalente, anche in Italia, è stata di questo tipo. Un pazzo che spara in un campeggio, così come un pazzo squilibrato in Nuova Zelanda ha sparato ai fedeli in una moschea. Fatti di questa natura sono neutralizzati culturalmente, anche con la complicità di certi organi di stampa, di modo che le forze politiche che si rifanno a quelle stesse ideologie, non paghino il prezzo politico di trascinarsi dietro fatti di quella gravità. Un po’ per ignoranza, superficialità o malizia, esiste una segregazione fra la gravità dei fatti del terrorismo di estrema destra e la valenza ideologica. Le persone a valle di questo processo premiano le forze di estrema destra ritenendo queste forze maggiormente tutelanti proprio alcune delle fasce più fragili e povere della popolazione da quelli che sono universalmente riconosciuti come i fallimenti della globalizzazione. Riavvolgendo al contrario il ragionamento ,c’è un fatto maggiore e cioè il fallimento della globalizzazione, che prometteva benessere diffuso e ha realizzato un benessere molto a macchia di leopardo, dove le diseguaglianze sono esplose e in cui le persone con meno strumenti economici e culturali si sentono reiette (Papa Francesco parla degli scarti umani della globalizzazione), che causa un disagio di larghi settori della società, raccolto da forze di estrema destra che illudono queste fasce con il risorto e terribile mito del nazionalismo. Queste forze riescono ad avere successo non scontando per nulla quell’articolazione del pensiero neofascista che sono gli atti di terrorismo, anche grazie alla malizia di certi mezzi di comunicazione.


Questo evento, secondo un saggio pubblicato alcuni anni fa con altri osservatori, “La Repubblica d’Europa” dovrebbe essere l’elemento fondante dell’Europeismo moderno, come mai?

Perché come disse Mitterrand intervenendo al Parlamento Europeo, il nazionalismo è guerra. Quindi, se non vogliamo seppellire di nuovo e forse definitivamente il sogno, l’ambizione di una convivenza pacifica fra umani, non possiamo arrenderci culturalmente e politicamente al rigurgito nazionalista, dobbiamo ancora una volta, come avvenne nel secondo dopoguerra, anche se ci vollero cinquanta milioni di morti, due atomiche e un olocausto, convincere che valeva la pena condividere le materie fondamentali dell’economia e che la cooperazione e la solidarietà fossero idee superiori al nazionaismo competitivo. Se l’UE nascerà qualche decennio dopo, lo farà a partire da quell’invenzione che secondo me raccolse in maniera profonda e pragmatica queste idee di cooperazione e condivisione che fu la Ceca (comunità carbone e acciaio). Dopo centinaia di anni in cui in Europa ci si era massacrati, specie fra francesi e tedeschi, si comprese la strada per uscire da quella logica odiosa e sanguinosa e irrisolvibile. La seconda guerra mondiale è stata un banco di prova, ci abbiamo messo 2000 anni per capire che i greci avevano ragione quando dicevano “La violenza genera violenza”. Condividere e cooperare non vuol dire omogeneizzarsi, ma significa mettere a fattore comune le proprie competenze in un progetto condiviso che abbia come stella polare la pace e la libertà dell’individuo. Tutti i liberali che ancora vivono in Europa dovrebbero capire che senza pace si perde la libertà e che l’individuo vive libero se c’è pace, e realizza la propria esistenza compatibilmente con quella degli altri. Tutto questo ovviamente dovrebbe avere una proiezione globale, il mondo dovrebbe funzionare così e non rinuncio a pensare a questo. Capisco che possa suonare velleitario, ma non rinuncio a questa idea. Visto che, quando va bene, si procede per tappe, la prima non può che essere l’UE. Prima che venga svuotata del proprio nucleo valoriale, fortemente radicato nel manifesto di Ventotene, e si riduca come i nazionalisti vorrebbero ad un bancomat condominiale con un collante molto fragile di fronte alle sfide globali, dovremmo essere in grado di fare Politica con la P maiuscola, fare campagna, cultura, movimento perché l’UE imbocchi un’altra strada. Uso il condizionale perchè, e lo dico credendoci, non vedo segnali che vadano in questa direzione. Anche quando alcune élite politiche danno segnali, l’ultimo lo ha dato la segretaria del PD non più tardi della scorsa settimana portando a Ventotene la segreteria del PD omaggiando la tomba di Spinelli a Ventotene, non mi sembra, ma spero di essere smentito e che accada il contrario, corrispondano ad un sentimento diffuso e una capacità di mobilitazione. L’opinione pubblica, quella che si direbbe democratica europeista, non mi pare che avverta il rischio che stiamo correndo.


Il sistema carcerario norvegese non prevede l’automatismo dell’ergastolo e Breivik ha scontato oltre la metà della sua pena. E’ improbabile, ma c’è una piccola possibilità che possa essere scarcerato fra nove anni. E’ un elemento che ti preoccupa?

No, questo elemento non mi preoccupa, da quello che ho capito esiste comunque una commissione che ha il compito di valutare caso per caso se c’è stato un ravvedimento, e in caso contrario ha il potere di indicare alla giurisdizione che è bene che il reo rimanga in carcere. Fatta questa precisazione, comunque non preoccupa la permanenza in carcere di Breivik. Mi preoccupa di più la sua capacità mediatica: lui ha ha usato il processo per promuovere la sua idea suprematista e, per le regole che ci sono, lo ha usato come palcoscenico e ha fatto lo stesso con la sua detenzione, ricevendo negli anni centinaia di lettere e ha continuato a tessere le sue relazioni da dentro il carcere. Mi preoccupa la sua inesaurita capacità di fomentare questo punto di vista sulla realtà. Gli umani possono sacrificare se stessi per una convinzione, e possono lasciarsi morire in nome della libertà come Jan Palak o possono sterminare un intero popolo come i nazisti. Le idee fanno la storia e la guerra è una sua conseguenza. La capacità di proiezione culturale di questi estremisti non viene meno. La mia preoccupazione, che ha portato alla “Repubblica d’Europa” è che la denuncia della pericolosità di certe idee non è sufficiente. Denunciarlo non fa di per sé nascere la passione per un’idea uguale e contraria. Noi democratici, europeisti e liberali non abbiamo fatto il nostro compito quando abbiamo denunciato la pericolosità delle idee neofasciste e neonaziste. La denuncia non fa sorgere un’idea altrettanto entusiasmante verso i cittadini o l’opinione pubblica. Abbiamo scritto questo saggio immaginando che un’idea avanzata di futuro per l’UE non sia per nulla una concessione o un brand. Ci sono argomenti per me molto forti che mi spingono a dire che quel passo verso l’Europa federale andava fatto nel 2000 a Nizza (Consiglio Europeo di Nizza, ndr) nel frattempo la retorica neonazionalista si è rimangiata l’idea di stato nazione che non è più portatore del valore europeista.


E c’è una risposta a questo?

La risposta sta nel Parlamento Europeo eletto a suffragio universale, lì c’è un futuro, non nelle altre due gambe come la Commissione e il Consiglio, ma nel parlamento eletto, che è già la quintessenza di una repubblica federale. Il concetto di Repubblica rimanda al valore del bene comune e condiviso in Europa da quasi 500 milioni di cittadini che dovrebbero condividere un nucleo valoriale. Ecco perché parliamo di repubblica federale e non di Stati Uniti d’Europa e perché gli attribuiamo un valore impareggiabile. Ecco perché, nel 2024, le elezioni saranno importanti. Se dovessero essere le forze nazionaliste a convincere i popolari a non stare più assieme ai Socialdemocratici e ai Liberali, le destre faranno in modo che il PPE governi assieme a loro. Se dovesse succedere questo, il prossimo Parlamento Europeo sarebbe lontanissimo dalla prospettiva di una repubblica federale e rischierebbe di essere l’ultimo.

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